Blue Whale Challenge: istigazione al suicidio o adescamento di minorenni?

Blue Whale Challenge: istigazione al suicidio o adescamento di minorenni?
07 Febbraio 2018: Blue Whale Challenge: istigazione al suicidio o adescamento di minorenni? 07 Febbraio 2018

Con la sentenza n. 57503/2017, depositata in data 22.12.2017, la Corte di Cassazione si è pronunciata sul “fenomeno” della Blue Whale Challenge, spiegando perché i fatti criminosi posti in essere dal c.d. master potrebbero non configurare il reato di istigazione al suicidio, ma “solo” il (meno grave) delitto di adescamento di minorenne. Nel caso affrontato dai Giudici di Piazza Cavour l’indagato, prendendo parte al noto “gioco della balena blu”, aveva inviato ad una minorenne alcuni messaggi, tra cui uno che così intimava alla sua vittima “manda audio in cui dici ke sei mia schiava e della vita non ti importa niente e me la consegni”. Il Pubblico Ministero, a fronte del predetto messaggio, aveva quindi ravvisato i delitti di istigazione al suicidio (art. 580 c.p.) e di adescamento di minorenne (art. 609-undecies c.p.) ed aveva disposto con decreto il sequestro probatorio del telefono cellulare e del materiale informatico dell’indagato. Quest’ultimo aveva quindi impugnato il decreto di sequestro, che veniva tuttavia successivamente confermato dal Tribunale del riesame. L’indagato proponeva pertanto ricorso in Cassazione, deducendo, tra l’altro, la violazione della legge penale, in quanto il reato di istigazione al suicidio non era configurabile nel caso di specie perché la minore non aveva tentato di togliersi la vita. Parimenti, anche il reato di adescamento di minore non era ipotizzabile, in considerazione dell’atipicità della condotta rispetto alle previsioni codicistiche, essendo stata compiuta mediante l’invio di messaggi telefonici. Pertanto, non sussistendo i reati sui quali si era basato il provvedimento cautelare del Pubblico Ministero, questo doveva essere annullato, con restituzione all’indagato di quanto oggetto di sequestro. La Corte di Cassazione ha accolto solo in parte le censure mosse dalla difesa, ritenendo insussistente il solo reato di istigazione al suicidio. La Corte ha infatti osservato che l’art. 580 c.p. “punisce l’istigazione al suicidio (…) a condizione che la stessa venga accolta e il suicidio si verifichi o, quanto meno, il suicida, fallendo nel suo intento, si procuri una lesione grave o gravissima” (cfr., in senso conforme, Cass. pen., sez. III, sent. 29.09.2016, n. 8691; Cass. pen., sez. III, sent. 04.03.2015, n. 16329). In altre parole, il reato in esame si configura solo nel caso che dalla condotta derivi l’esecuzione del proposito suicida ovvero il fallimento dell’intento suicidario con lesioni definibili gravi o gravissime secondo quanto prevede l’art. 583 c.p.. Il Tribunale di Roma, pertanto, aveva erroneamente ritenuto sussistente il fumus del delitto di cui all’art. 580 c.p.  ipotizzato dal Pubblico Ministero. Tuttavia, ciò non è stato sufficiente a determinare l’invocato annullamento del provvedimento impugnato, in quanto l’inoltro del citato messaggio aveva comunque integrato il reato di adescamento di minori, che punisce qualsiasi atto - artifici, lusinghe, o minacce, compiuti attraverso la rete internet o altro mezzo di comunicazione - volto a carpire la fiducia del minore. Ed anche se, in base all’art. 609 – undecies c.p., questi atti dovrebbero essere rivolti a commettere uno dei reati sessuali previsti dalla fattispecie penale, il riferimento alla schiavitù ed alla condizione di sottomissione contenuti nel predetto messaggio hanno consentito comunque, in un’ottica di massima tutela del minore, di ravvisare questo presupposto. Per tali ragioni, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dall’indagato, così confermando la pronuncia del Tribunale del riesame e, quindi, la legittimità del provvedimento cautelare.

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